Contraddittorio preventivo obbligatorio anche per gli accertamenti “misti” se c’è un riferimento agli studi di settore.

Nella complessa questione del contraddittorio endoprocedimentale preventivo come è noto figurano diversi riferimenti normativi e giurisprudenziali e diverse regole applicativi. Le norme interne specifiche, l’articolo 41 della Carta di Nizza per l’ambito dei tributi armonizzati e alcune sentenze che hanno fatto riferimento a specifiche procedure di accertamento con peculiari caratteristiche.

E’ quest’ultimo il caso degli studi di settore (e accertamenti standardizzati in genere) per i quali le celebri sentenze delle Sezioni Unite del 18 dicembre 2009 (nn. 26636,26637, 26638) prevedono l’obbligo di un confronto preventivo con il contribuente. Ricordiamo infatti che per la Corte “La procedura di accertamento tributario standardizzato, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente”.

Nel lungo percorso successivo del principio che tutela la difesa procedimentale preventiva tale lettura è rimasta valida.

La sentenza 9 dicembre 2015 n. 24823 delle Sezioni Unite ne parla al paragrafo 3 negando che la lettura del 2009 rappresenti un tassello del riconoscimento progressivo di un principio di tutela generalizzata del contraddittorio, ma confermando le conclusioni delle sentenze predette sugli accertamenti parametrici per le caratteristiche “ontologiche” degli accertamenti stessi.

Per le Sezioni Unite 2015 infatti, all’affermazione della necessità di siffatto contraddittorio in relazione ai c.d. “accertamenti standardizzati” (quelli, cioè, fondati sui “parametri” di cui alla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 e ss., o sugli “studi di settore”), la giurisprudenza perviene infatti, non sul presupposto della vigenza nell’ordinamento di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale, bensì in considerazione delle specifiche caratteristiche ontologiche e normative di detti accertamenti.

Caratteristica particolare è infatti la peculiarità di detti accertamenti di trovare origine in dati statistici di settore, che per consolidata giurisprudenza (v. Cass. 13741/13, 12428/12, 13594/10, 4148/09, 26459/08, 19829/08, 9625/07, 6758/07, 18038/05, 26388/05), pur costituendo presupposto per il legittimo ricorso all’accertamento induttivo, non assurgono di per sè stessi, se contrastati, al valore di prova nemmeno presuntiva, all’uopo necessitando di essere integrati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa del singolo contribuente. Un’altra peculiarità è quella per cui gli specifici richiami normativi (v. il riferimento all’istituto del c.d. “accertamento con adesione” contenuto nella L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 185, in tema di “parametri”, e la previsione della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3 bis, in tema di “studi di settore”) in proposito operati, anche sulla scia dei rilievi contenuti nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 105/03, al contraddittorio, quale strumento essenziale ed imprescindibile “per consentire un necessario adeguamento della elaborazione parametrica – che, essendo un’estrapolazione statistica a campione di una platea omogenea di contribuenti, soffre delle incertezze da approssimazione dei risultati proprie di ogni strumento statistico – alla concreta realtà reddituale oggetto dell’accertamento nei confronti di un singolo contribuente”.

Con questa necessaria premessa ci occupiamo adesso della Sentenza della Sezione Tributaria n. 31495 del 3 dicembre 2019 (Pres. Cristiano Rel. D’Aquino).

L’accertamento, nel caso specifico, non era fondato direttamente sugli studi di settore, ma sicuramente ne ha tenuto conto, anche se si configurava come un accertamento induttivo dei ricavi. Infatti la CTR aveva rilevato che l’avviso di accertamento si fondava sui dati e le notizie riportati dalla società nella «compilazione del modello relativo allo studio di settore … non corrispondenti ai valori indicati in contabilità», sulla base dei quali l’Ufficio «ha provveduto […] alla determinazione induttiva dei ricavi»;

Per la Corte è chiaro allora che  costituisce accertamento in fatto compiuto dal giudice del merito la circostanza che l’atto di innesco dell’indagine fosse costituito dalla compilazione da parte della società contribuente del modello degli studi di settore;

Peraltro, secondo quanto si ricava dalla lettura della sentenza di primo grado e secondo quanto riconosciuto dalla stessa controricorrente, una volta rilevata l’inattendibilità dei dati contabili indicati dalla società rispetto allo specifico cluster di appartenenza, l’Agenzia ha emesso l’avviso impugnato determinando i maggiori ricavi non già attraverso un’effettiva indagine analitico-induttiva, ma per differenza fra quelli risultanti dalla corretta rielaborazione dello studio di settore applicabile e quelli dichiarati.

Quindi non si trattava nel caso specifico di un accertamento svolto direttamente con l’applicazione del software alla base degli studi di settore, ma di un accertamento che la Corte definisce «misto», per il quale, attesa la metodologia statistica adottata per quantificare la pretesa impositiva, doveva ritenersi comunque obbligatoria, a pena di nullità, l’instaurazione del contraddittorio preventivo con la contribuente (Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27617; Cass., Sez. V, 18 dicembre 2017, n. 30370; Cass., Sez. V, 20 settembre 2017, n. 21754).

L’assenza del contraddittorio preventivo, per i Giudici di Legittimità, fa dunque risultare nullo l’atto impositivo.