Conferimento di ramo d’azienda e successiva cessione delle quote: non è possibile una riqualificazione applicando l’art. 20 del t.u. di registro

L’Ordinanza 29 settembre 2021 n. 26505 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (Pres. Chindemi, Rel. Dell’Ofano) respinge il ricorso dell’Agenzia delle Entrate relativamente all’ipotizzato abuso del diritto da parte della società in relazione ad una cessione di azienda attuata, secondo l’accertamento, attraverso un conferimento e una successiva cessione di quote, da cui la riqualificazione ex art. 20 del testo unico di registro dell’atto.

Lo schema è quello noto. Con atto registrato il 26.2.2010 la S.S.C. S.r.L. aveva costituito la I. C. S.r.L., interamente partecipata dalla stessa; il 31.5.2010 la S.S.C. S.r.L. aveva conferito alla neo costituita società un ramo d’azienda, consistente in un ipermercato; in data 1.6.2010 la S.S.C. S.r.L.aveva ceduto a N.C. S.r.L. l’intera partecipazione detenuta in I.C. S.r.L..

L’Agenzia delle entrate, avendo riqualificato gli atti negoziali posti in essere come atto di cessione d’azienda, liquidava una maggiore imposta di registro in misura proporzionale, oltre sanzioni e interessi.

I Giudici della Sezione Tributaria rammentano che sul tema si è da poco pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 158 del 21 luglio 2020. La Consulta ha analizzato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, c.d. TUR), nella parte in cui, nella sua attuale formulazione, dispone che, nell’applicare l’imposta di registro «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”».

Nel ritenere non fondata la questione di incostituzionalità, la Corte Costituzionale ha evidenziato come il legislatore, con la denunciata norma, ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di <<imposta d’atto>> dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal Testo Unico.

Inoltre la valutazione degli atti in termini di elusione o abuso è profondamente mutata a partire dall’introduzione dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000: come conseguenza, se si accettasse l’idea di una riqualificazione ampia degli atti si consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di «indebiti» vantaggi fiscali e di operazioni «prive di sostanza economica», precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea).

La Corte si richiama ai predetti principi e conclude con la considerazione per cui se è indubitabile che l’Amministrazione in forza dell’art. 20 del DPR 131/86 non è tenuta ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella “forma apparente” al quale lo stesso art. 20 fa riferimento, è indubbio che in tale attività riqualificatoria essa non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici.