Società di comodo: prova contraria sempre ammessa in sede giurisdizionale anche in assenza del rimedio precontenzioso dell’interpello disapplicativo

“In ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), sia che la presentazione dell’interpello e la conseguente risposta negativa dell’Amministrazione ha natura di parere, al quale il contribuente può non adeguarsi, senza doverlo necessariamente impugnare, per evitarne la cristallizzazione, potendo comunque impugnare gli atti successivi di applicazione delle disposizioni antielusive non impediscono al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico impositivo che gli venga successivamente notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva; sia che egualmente, in caso in cui l’interpello non sia stato proposto, il contribuente potrà comunque richiedere in sede giurisdizionale l’accertamento dei presupposti per la disapplicazione della disciplina antielusiva”.

Questo il consolidato principio di diritto espresso con ordinanza n. 4946 del 24 febbraio 2021 dalla Quinta Sezione della Corte di Cassazione (Pres. Crucitti, Rel. Mancino) circa la possibilità per il contribuente di vincere la presunzione legale della finalità elusiva delle società non operative attraverso la prova contraria qualificata.

Nei fatti l’Agenzia delle entrate notificava ad una s.r.l. esercente attività di amministrazione immobiliari un avviso di accertamento con il quale, in relazione all’anno di imposta 2007, aveva rideterminato il reddito di impresa ai fini IRES e il valore della produzione netta ai fini dell’IRAP ai sensi dell’art. 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, sul presupposto che la predetta società non aveva presentato istanza di disapplicazione della disciplina antielusiva, né aveva superato il test di operatività. La contribuente proponeva impugnazione davanti alla Commissione tributaria provinciale di Bari che accoglieva il ricorso; in appello erano invece accolti i gravami proposti dall’Agenzia. In particolare i giudici d’appello sostennero che la società contribuente non aveva esperito l’interpello disapplicativo ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973, da considerarsi quale adempimento ineludibile per affrancarsi dall’applicazione delle norme sul reddito minimo presunto, nonché dalle penalizzazioni in materia di IVA. Inoltre, a giudizio della commissione regionale, al contribuente non era consentito di fornire in corso di accertamento la prova contraria alla presunzione legale di «non operatività», stante che l’art. 1, comma 109, lett. a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, applicabile nel caso di specie, aveva eliminato il riferimento alla «prova contraria», originariamente contenuto nel primo comma dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994. Da qui il ricorso in Cassazione della società contribuente.

Come ricordato dalla Corte il contenuto precettivo dell’art. 30 della legge n. 724/1994 (nella versione anteriore alla soppressione, ad opera della legge n. 296 del 2006) dell’inciso “salvo prova contraria”, comportava un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale era ammesso a fornire, oltre alla prova positiva del superamento delle soglie, la prova dell’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, a sé non imputabili, che avessero impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto.

Si era, dunque, al cospetto di una triplice presunzione legale relativa, la prima delle quali faceva derivare dall’accertamento dell’esistenza degli elementi patrimoniali indicati nel primo comma dell’art. 30 il fatto ignoto dell’inoperatività della società; la seconda, correlava all’inoperatività l’impiego elusivo dello schema societario per la gestione di patrimoni e la terza faceva scaturire dall’inoperatività la percezione di un reddito minimo. La prima di tali presunzioni era superabile attraverso la dimostrazione dell’insussistenza degli elementi patrimoniali valorizzati dall’Amministrazione finanziaria ai fini del test di operatività o la sussistenza di un’effettiva attività imprenditoriale, la seconda mediante la prova di una situazione oggettiva e non imputabile all’interessato che giustificasse la scarsità dei ricavi e del reddito.

Successivamente, con l’art. 1, comma 109, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il legislatore interveniva sull’art. 30 della legge n. 724 del 1994, sopprimendo, nella prima parte del primo comma, il riferimento alla prova contraria.

Come osservato dal Collegio tuttavia il procedimento inferenziale congegnato dal legislatore al fine di agevolare l’accertamento del reddito in presenza di indici di elusione non mutava la natura della presunzione legale. Alla soppressione dell’inciso «salvo prova contraria» non si accompagnava infatti l’esplicita previsione dell’inammissibilità della prova contraria; questo in linea con l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 200/1976) a fronte del diritto del legislatore, volto a salvaguardare un interesse effettivamente meritevole di tutela, di formulare “previsioni logicamente valide ed attendibili, non è peraltro consentito trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite, senza la possibilità che si ammetta la prova del contrario e si salvaguardi, quindi, accanto all’esigenza indiscutibile di garantire l’interesse della pubblica finanza alla riscossione delle imposte, il diritto del contribuente alla prova dell’effettività del reddito soggetto ad imposizione”.

Accolto il ricorso, i Giudici di Legittimità hanno dunque affermato che le modifiche apportate dalla legge n. 296 del 2006 non hanno eliminato la possibilità per il contribuente di vincere la presunzione legale della finalità elusiva delle società non operative attraverso la prova contraria qualificata – contenutisticamente tipizzata all’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994. Contestualmente, alla stregua di tale esegesi, hanno respinto l’assunto, sostenuto nel caso di specie dall’Amministrazione finanziaria e condiviso dai giudici d’appello, secondo il quale, in seguito alla modifica apportata all’art. 30 dalla legge finanziaria per il 2007, il contribuente potesse essere ammesso alla prova contraria solo a condizione del preventivo esperimento del rimedio precontenzioso dell’interpello disapplicativo.