Ancora troppi dubbi sul concetto di inerenza

L’Ordinanza 7 luglio 2021, n. 19237 (Pres. Sorrentino, Rel. Crucitti) della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione accogliendo un ricorso dell’amministrazione si occupa di inerenza dei costi e di onere della prova della stessa.

Va detto al riguardo che dagli anni più recenti, abbandonata la valutazione del costo in termini quantitativi e in termini di reale collegamento ai ricavi, la giurisprudenza ha sposato una linea per la quale l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, “senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, senza che assuma rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Sez. 5, ord. n. 450 del 2018)”.

Detto questo quindi nessuna “prova di inerenza” dovrebbe essere chiesta al contribuente, almeno se non si tratta di spese evidentemente extra aziendali pretestuosamente inserite nei costi fiscalmente deducibili.

Nell’ordinanza i Giudici ricordano che l’orientamento consolidato della Corte, di recente ribadito da Cass. n. 2224 del 02/02/2021, è quello per cui “in tema di reddito d’impresa, ai fini della deducibilità dei costi sostenuti, il contribuente è tenuto a dimostrarne l’inerenza, intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità, coerenza e correlazione, non già ai ricavi in sé, ma all’attività imprenditoriale svolta, sicché deve provare e documentare l’imponibile maturato, ossia l’esistenza e la natura dei costi, i relativi fatti giustificativi e la loro concreta destinazione alla produzione;”. In precedenza, si era già specificato (v.Cass. n. 13588 del 30/05/2018) che “in tema di deducibilità dei costi, l’inerenza, desumibile dall’art. 109, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 (in precedenza, art. 75, comma 5, del detto decreto), deve essere riferita all’oggetto sociale dell’impresa, in quanto non integra un nesso di tipo utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo ed attività di impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile, ma – a differenza di quanto avviene ai fini della detrazione dell’IVA, rispetto alla quale il concetto ha valenza esclusivamente qualitativa – nelle imposte dirette l’antieconomicità di una spesa, ossia la sproporzione sul piano quantitativo, può costituire significativo sintomo della non inerenza della stessa”.

Come si vede, attraverso un giro di parole, si torna invece a menzionare il lato quantitativo dell’inerenza, menzionando la “sproporzione” (rispetto a cosa?). E quindi l’orientamento che si dice affermato, che considera l’inerenza solo in termini quantitativi, finisce per essere alla fine messo in dubbio.

Nel caso specifico con riguardo ai costi, secondo la Corte, la Commissione regionale, nel ritenerne l’inerenza, avrebbe invece fatto rilievi generici e sostanzialmente invertito l’onere della prova, che è a carico del contribuente, immaginiamo, relativamente al collegamento all’impresa sul piano (meramente) qualitativo.

Non convince neppure del tutto, a dire il vero, il passaggio nel quale si afferma di non poter attribuire alcuna rilevanza alla relazione della Società di revisione sui bilanci della resistente, “perché inammissibilmente prodotta dalla Società con inserimento nelle memorie”. Si dovrebbe capire meglio l’accaduto, ma proprio in questi giorni la stessa Corte, in una pronuncia in senso favorevole all’amministrazione (19368/2021), ha ritenuto la produzione di nuovi documenti in grado di appello del tutto libera.