IMU da considerare costo di impresa a fini IRES se relativa ad immobili strumentali. Incostituzionale la norma che limita la deducibilità.

Potenzialmente a grande impatto la Sentenza n. 262 del 4 dicembre 2020 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima la regola che prevede la indeducibilità dell’IMU pagata sugli immobili strumentali. Indeducibilità dapprima assoluta, poi in percentuali sempre minori per interventi normativi successivi (oggi al 40 per cento). Si tratta dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 715, della legge 27 dicembre 2013, n. 147.

La Corte ritiene che le questioni poste alla propria attenzione da una ordinanza della CTP di Milano siano fondate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. sotto il profilo della coerenza e quindi della ragionevolezza.

Con il d.lgs. n. 23 del 2011 sul federalismo fiscale municipale, attuativo della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), si prevedeva che a decorrere dall’anno 2014 fossero introdotte nell’ordinamento fiscale due nuove forme di imposizione municipale: a) una imposta municipale propria; b) una imposta municipale secondaria.

La prima, la cosiddetta IMU, riuniva in un unico, nuovo, tributo la precedente imposta comunale sugli immobili (ICI) (che già significativamente aveva ampliato il livello della finanza autonoma), e l’imposta (statale) sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) – e relative addizionali – dovuta in relazione ai redditi fondiari (riguardanti i beni non locati). Si attribuiva in tal modo ai Comuni un significativo gettito erariale, compensato da una corrispondente riduzione dei trasferimenti statali; così limitando il grado di finanza derivata.

La seconda imposta – destinata però a rimanere prima inattuata e poi abrogata dall’art. 1, comma 25, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – perseguiva il medesimo scopo di semplificazione accorpando altri tributi minori locali in un’unica forma impositiva.

Per quanto qui interessa è opportuno precisare che ai Comuni, a cui era destinato l’intero gettito dell’IMU e a cui si consentiva una manovra in aumento o in diminuzione fino allo 0,30 per cento, veniva attribuita la facoltà di ridurne fino alla metà l’aliquota «nel caso in cui abbia ad oggetto immobili non produttivi di reddito fondiario ai sensi dell’articolo 43 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, ovvero nel caso in cui abbia ad oggetto immobili posseduti dai soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società» (art. 8, comma 7, del citato d.lgs. n. 23 del 2011). Tale disposizione, secondo la Corte, era funzionale a consentire ai Comuni di evitare che il nuovo tributo determinasse un incremento della pressione fiscale sulle imprese.

Successivamente però il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 ha disposto l’anticipazione dell’introduzione dell’IMU al 2012; sono stati introdotti moltiplicatori delle rendite catastali che ne hanno notevolmente incrementato l’incidenza; è stato attribuito allo Stato, pur mantenendo il carattere municipale dell’imposta, metà del gettito su tutti gli immobili, a eccezione dell’abitazione principale e dei fabbricati rurali a uso strumentale; è stata, inoltre, prevista l’applicazione dell’imposta anche all’abitazione principale.

Di lì a poco, con l’art. 1, comma 380, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)», il quadro è stato nuovamente modificato, definendo così le grandi linee dell’assetto attuale: a) la menzionata riserva allo Stato, che riguardava prevalentemente l’IMU sulle seconde case, è stata sostituita con una riserva allo stesso dell’intero gettito IMU dovuto sugli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo catastale D (ovverosia capannoni industriali e opifici); b) tale gettito è stato determinato ad aliquota standard dello 0,76 per cento, così sostanzialmente impedendo la possibilità, in precedenza accordata, per i Comuni, di dimezzare l’IMU sugli immobili strumentali; c) è stata ribadita espressamente la possibilità dei Comuni di incrementare, trattenendo il relativo gettito, fino a 0,3 punti percentuali tale aliquota standard sugli immobili a uso produttivo, portandola quindi fino all’1,06 per cento (art.1, comma 380, lettera g, della legge n. 228 del 2012).

Dagli interventi normativi successivi, però, secondo i Giudici della Consulta, traspare la consapevolezza che la indeducibilità dell’IMU avesse determinato un impatto eccessivamente gravoso per le imprese, dal che tale indeducibilità è stata progressivamente ridotta ed in previsione, è stata già azzerata dal 2022 in avanti.

La deducibilità dell’IMU dall’imponibile dell’IRES, prosegue la motivazione, assume natura strutturale in quanto, come si approfondirà di seguito, il legislatore ha espressamente individuato il presupposto dell’IRES nel possesso di un «reddito complessivo netto» (art. 75, comma 1, TUIR); ciò a differenza di quanto ha invece stabilito per alcune categorie di reddito, come, ad esempio, i redditi di lavoro dipendente, che sono computati al lordo, senza deduzione (analitica) dei costi di produzione.

Ciò è vero a maggior ragione per gli immobili strumentali, per i quali il principio di inerenza esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo» (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 22 gennaio 2020, n. 1290).

Va precisato, poi, che in relazione agli oneri fiscali l’art. 99, comma 1, del TUIR (rubricato «Oneri fiscali e contributivi») sancisce in via generale il principio della deducibilità delle imposte dal reddito, stabilendo che «[l]e imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento».

Per la Corte Costituzionale, dunque “Un tributo così caratterizzato costituisce … un costo fiscale inerente di cui non si può precludere, senza compromettere la coerenza del disegno impositivo, la deducibilità una volta che il legislatore abbia, nella propria discrezionalità, stabilito per il reddito d’impresa il criterio di tassazione al netto”.