Oggi segnaliamo occasionalmente una sentenza (n. 23790 del 24 settembre 2019, Pres. Manna Rel. Berrino) della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione.
La questione è infatti relativa alla contribuzione INPS ed attiene alla individuazione della base imponibile sulla quale il lavoratore autonomo iscritto alla relativa gestione previdenziale e, nel contempo, socio di società di capitale deve parametrare il proprio obbligo contributivo. Cioè se si debba tener conto di tutti i redditi dal medesimo percepiti nel corso dell’anno di riferimento in relazione alla propria posizione di socio o se, all’opposto, si debba tener conto solo dei redditi connessi allo svolgimento di un’attività lavorativa.
Secondo la tesi dell’INPS – ricorrente -, infatti, la più recente disposizione normativa di cui all’art. 3-bis della legge n. 438/1992 non limita (come la precedente disciplina di cui all’art. 1 della legge 2 agosto 1990, n. 233) l’individuazione dei redditi imponibili ai soli redditi scaturenti dallo svolgimento dell’attività lavorativa imprenditoriale, ma ha ampliato la base imponibile estendendola alla “totalità dei redditi d’impresa”. Inoltre, una tale estensione comprende tutti i redditi d’impresa a prescindere che gli stessi siano il frutto della partecipazione del lavoratore autonomo a una società di persone o a una società di capitali. In definitiva, i redditi da capitale e i dividendi costituiscono, nella visione previdenziale dell’Inps, reddito a disposizione del lavoratore autonomo che ne migliorano il tenore di vita e che saranno utili per il miglioramento della prestazione pensionistica.
Per la Corte invece ai fini della determinazione del reddito previdenziale, la normativa di riferimento è certamente l’art. 3-bis del D.L. nr. 384/92, convertito in legge n.438/92, per il quale “…l’ammontare del contributo annuo dovuto per í soggetti di cui all’articolo 1 della legge 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. Ma anche l’art. 1, co. 202, 203, Legge nr. 662/1996 per cui (…) “L’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla Legge 22 luglio 1966, n. 613, e successive modificazioni ed integrazioni, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti (…) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza…”
Dal quadro giuridico di riferimento appare, quindi, con chiarezza che per i soci di società commerciali la condizione essenziale per far scattare l’obbligo contributivo nella gestione Artigiani/Commercianti, è quella della “partecipazione personale al lavoro aziendale”.
Tuttavia, la sola percezione di utili derivanti da una mera partecipazione (senza lavoro) in società di capitali, non può far scattare il rapporto giuridico previdenziale, atteso che il reddito di capitale non rientra tra quelli costituzionalmente protetti, per il quale la collettività deve farsi carico della libertà dai bisogni (tra i quali rientra il diritto alla pensione al termine dell’attività lavorativa).
Inoltre, contrariamente a quanto affermato dall’Inps, non possono trarsi elementi a sostegno della sua tesi dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 354 del 2001.
E’ vero che in tale sentenza si è ritenuta non fondata la censura di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis del decreto legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438 – concernente la sottoposizione a contribuzione INPS dei redditi denunciati a fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice – sollevata in riferimento agli artt. 3, 38, comma 2°, e 53 della Costituzione. Ciò chiarendo che la norma che sottopone a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, non introduce una discriminazione in danno dì questi rispetto al socio di società di capitali proprio perché il reddito dell’accomandante è dato dalla quota dell’utile fiscale corrispondente al capitale del socio stesso, salvo diverse pattuizioni, ai sensi dell’articolo 5 del TUIR. Per trasparenza ed indipendentemente dalla percezione. Ma tale regola non vale affatto per i soci di società di capitali.