L’ordinanza 1° febbraio 2018 n. 2536 della VI sezione della Corte di Cassazione (Pres. Iacobellis, Rel. Conti) si occupa di un accertamento fondato sulle indagini bancarie nel quale erano state attratte alla base imponibile della società le movimentazioni sui conti di tutti i soci, sul presupposto che i movimenti non giustificati fossero in realtà maggiori redditi di provenienza dall’ente.
Tale accertamento veniva ritenuto fondato sia in primo che in secondo grado in quanto per i giudici locali la società non aveva offerto sufficienti giustificazioni sulle movimentazioni.
La Corte ribalta le precedenti decisioni, ricordando in primo luogo che è vero che in sede di rettifica e di accertamento d’ufficio delle imposte sui redditi, l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli intestati ai soci, agli amministratori o ai procuratori generali. Tale principio si applica però solo “allorché risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali, atteso che, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 cit., incombe sulla società contribuente dimostrarne l’estraneità alla propria attività di impresa -Cass. n. 8112/2016, Cass. n. 16575 /2013, Cass. n. 13391/2003-“.
Quindi occorre che la prova del collegamento alla società sia fornita in questi casi dall’Ufficio che effettua l’accertamento e non dal contribuente che, trattandosi di movimenti personali e familiari, può legittimamente non tenerne memoria, trovandosi così, in situazioni di coinvolgimento di tali conti in un’indagine a carico dell’ente, a dover fornire una prova che rischia di divenire diabolica.