Occorre una seconda stagione dell’autotutela tributaria.

Come ricorderanno quelli tra noi che hanno oramai più di un capello bianco, il percorso dell’autotutela dal comparto amministrativo alla materia tributaria è stato lungo e difficile. A tale percorso contribuì sia l’apporto di grandi studiosi, sia un clima intellettuale nel quale rilevante importanza veniva attribuita alle norme di garanzia.

Come sappiamo quella stagione è stata fortemente ridimensionata soprattutto dalle esigenze di gettito e dalla “sensibilità” che a tali esigenze tipicamente afferenti all’area della politica è stata manifestata sia dalla Corte di Cassazione che dalla Consulta, in varie occasioni.

La vicenda dell’autotutela in particolare non ha più avuto sussulti minimamente interessanti dopo la sentenza 181 del 2017 della Corte Costituzionale nella quale un professore di diritto amministrativo, relatore in quell’occasione, ci ha spiegato con belle parole perché non possa esistere il diritto del contribuente a far correggere un atto illegittimo e/o infondato, usando concetti (es. la conservazione degli atti o, per meglio dire la “…stabilità degli effetti giuridici degli atti di diritto pubblico”) tutti afferenti, appunto, alla sfera del diritto amministrativo e non a quella del diritto tributario.

Quando anche un Presidente che reputiamo attento e preparatissimo, conferma che non si può ingerirsi nella sfera di discrezionalità degli Uffici, come è il caso della Sentenza 16 luglio 2019 n. 18992, Pres. Chindemi, Rel. Russo) della Sezione Tributaria, significa che un’era giuridica è finita.

Quanto alla sentenza, essa ribadisce, appunto, che il sindacato sul diniego di autotutela può esercitarsi solo sulla legittimità di rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria.

Per la Corte dunque “le ragioni di illegittimità del rifiuto non possono essere confuse con le ragioni di (pretesa) illegittimità dell’atto di accertamento divenuto definitivo, né identificate con una generica pretesa alla legalità dell’azione amministrativa, correlata pur sempre alla dedotta illegittimità dell’atto impositivo. Si tratta infatti di un interesse generico ed astratto, mentre per contestare la legittimità del rifiuto occorre dedurre un interesse concreto e specifico, ma anche di carattere generale, cioè travalicante quello individuale della parte in causa (Cass. 4937/2019); diversamente, si violerebbe non solo la regola della non ingerenza nella sfera della discrezionalità della pubblica amministrazione ma anche quello della certezza dei rapporti, perché in tal modo, senza limiti temporali definiti, la parte potrebbe sempre rimettere in discussione l’avviso, sollecitando il potere di autotutela e poi impugnando il rifiuto”.

E’ chiaro che per chiunque abbia passione per la materia tributaria non abbia senso contrapporre ai principi di capacità contributiva, di legalità, di buona amministrazione, di buona fede, di proporzionalità e ragionevolezza (ci scuseranno i lettori della sitetica sciorinatura, che avrebbe bisogno di ben altro approfondimento) la “discrezionalità” (sic…..) della pubblica amministrazione.

Forse è arrivato il momento che la dottrina si attivi di nuovo in modo vigoroso (e rigoroso), per dare forza alla revisione dei Principi. Forza che a questo punto potrà arrivare solo dal Legislatore. Occorre insomma una nuova stagione dell’autotutela tributaria dopo quella propugnata dai Maestri e affossata da altre parti.